Avete mai pensato cosa possa significare uccidere a sangue freddo un mammifero di taglia media con una sola lancia di legno? Nessun fucile, nessun proiettile, niente di niente. Beh io non me lo ero mai chiesto ma l’ho provato in prima persona ed ho capito due cose. La prima é che finché non si uccide con le proprie mani un essere vivente non ci si rende conto di quanto sia importante la vita (uccidere un animale premendo un grilletto non necessita di grandi doti fisiche né di estremo coraggio). La seconda é che quando si é molto affamati si é disposti a tutto, innescando un meccanismo di sopravvivenza ed auto preservazione in cui si mira alla conservazione egoistica e al soddisfacimento dei bisogni primari basici. Detto questo io non ho mai catturato un bel niente, se non tanti pesci (piraña, razze, pesci gatto) con la mia canna da pesca gialla fiammante.
Quando gli Waoranì mi proposero di andare a caccia ero molto eccitato, non ero ancora ben conscio di cosa mi avrebbe aspettato. Immaginatevi la scena: due indigeni e un toscano, muniti di lance primitive affilatissime, si incamminano in mezzo alla giungla amazzonica per circa 7 ore facendosi spazio nella folta vegetazione con un machete. Sembra una barzelletta. Le fittissime liane e le piante del sottobosco non lasciano molto spazio alla visuale tant’è che dopo un po’ tutto il paesaggio sembra uguale, non ci sono più punti di riferimento, ed é pertanto necessario affidarsi agli indigeni che probabilmente possiedono una bussola installata nel cervello in dotazione dalla nascita. Ci incamminiamo e dopo poco inizia la forte sudorazione, con un’ umidità dell’ottanta per cento ad essere ottimisti. Mi inizio a rendere conto che loro vivono senza maglietta per un motivo ben valido. Li imito, strizzando la mia t-shirt che ormai somiglia a uno straccio da terra.
Dopo circa due ore di camminata su e giù, iniziamo a seguire delle tracce, sono impronte di Wankana (nome indigeno per indicare il facocero selvatico, el chancho del monte). Mi sento un po’ un ris alla ricerca di malviventi in fuga, cerchiamo nella terra anche i minimi cambi di direzione ed ogni volta che giungiamo ad un rigagnolo di acqua le impronte si dissolvono nella soffice melma, lasciando spazio alla fantasia e all’intuito. Ed ecco che a un tratto sento un odore forte, nauseabondo, da togliere veramente il respiro. Inizio col pensare con un po’ di malizia che siano gas indesiderati espulsi dagli indios davanti a me, grandi divoratori di chicha quali sono (digressione: la chicha é una bevanda fermentata con la saliva, da me bevuta assiduamente essendo inconsapevole del suo macabro metodo di produzione per quasi l’intero soggiorno nella foresta), ma poco dopo l’odore si fa insopportabile e non più circoscritto: mi rendo conto che siamo vicini a quello che stiamo cercando da ore.
Passa qualche istante ed ecco che si percepiscono anche i primi grugniti in lontananza. Cala un silenzio liturgico tra gli indigeni, e la loro andatura da sostenuta inizia a farsi più felpata, con la schiena incurvata che rende la camminata degna dei migliori film polizieschi. L’indigeno Gaba mi fa cenno di dividerci: mai notizia più infausta mi fu data in un bosco. L’idea di rimanere solo in mezzo a un branco di facoceri selvatici inca**ati neri non mi andava a genio. Nonostante questo non voglio deluderlo e con movimenti da ninja mi allontano dal nucleo nascondendomi tra le basse felci. Dopo un po’ il caos: i wankana si accorgono della nostra presenza e iniziano a fuggire in ogni direzione, distruggendo gli innocui arbusti che si trovano nella direzione delle loro vie di fuga. Una decina di facoceri si avvicinano verso di me non notando la mia presenza. Secondo I loquaci indigeni avrei dovuto inseguirli e ucciderli a sangue freddo. -Ma manco se mi pagate- pensai subito (in effetti non avrebbero neanche avuto i soldi per pagarmi).
Salgo in un albero con la rapidità di un puma concolor, sempre più deciso a diventare vegetariano. Dopo un po’ che l’assalto della cavalleria si era acquietato, mi entra nell’occhio un cinghiale più piccolo e indifeso, del peso di non oltre 10 chili, e decido di inseguirlo pur di non deludere la mia tribù. Inutile dirvi che il karma mi punì amaramente. In meno di un minuto la fuga si concluse con il sottoscritto sprofondato fino alla vita nelle sabbie mobili, e con il fortunato cinghiale che grazie al suo peso piuma scappò senza affondare nella melma. Neanche un ultimo disperato tiro della lancia risolse niente, che fu inghiottita irrimediabilmente nello spernacchiante fango, che inglobando aria produceva evidenti rumori molesti.
Questa é solo una delle mie avventure di caccia in Amazzonia, faranno fronte altre esperienze altrettanto traumatiche tra cui la caccia alle scimmie con la cerbottana, o il mio inseguimento insensato e rocambolesco ad un capibara intento a prendere il sole. Sappiate che tutte queste esperienze, pur forti o strane che siano, insegnano quanto spesso non ci rendiamo conto della fortuna che abbiamo a convivere con le comodità della vita quotidiana. Al mio ritorno una doccia calda, la corrente elettrica e un letto sotto a un tetto sono state delle dolci riscoperte, ed ho capito che ogni tanto la nostra vita ha bisogno di qualche shock, se così vogliamo chiamarlo, per renderci conto che siamo vivi, siamo fortunati, e siamo qui per uno scopo.
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