Pescare in Amazzonia: come si mangia senza supermercati

Matteo va in Amazzonia con gli indigeni per un mese, ma come si spravvive quando non ci sono supermercati?

Molti si saranno chiesti, arrivati a questo punto, come gli indigeni si procacciassero il cibo per sopravvivere nella giungla. La risposta è facile ed insieme antica: raccogliendo frutta e cacciando. Appena arrivato nella foresta pluviale questa era forse la mia curiosità più grande: scoprire come fosse possibile, nel ventunesimo secolo, vivere ancora di sussistenza, senza fare la spesa nei supermercati, basando bensì l’alimentazione soltanto sulle proprie capacità venatorie e sulla fortuna del giorno.

Sin da subito realizzai quando importante fosse la pesca per il popolo Waoranì. Gilberto,dopo un tour di ricognizione per mettermi a mio agio in questo luogo a me ancora ostile, mi propose di andare a pescare nella laguna. Aveva già notato la mia canna da pesca, il furbacchione; la mia splendida canna,reduce di lunghe battute nel golfo di Follonica, ma ancora ignara dei mostri che si celavano dentro gli inesplorati specchi d’acqua amazzonici. Prendiamo il machete e, facendoci strada nel fitto sottobosco, iniziamo l’avventura incamminandoci nel cuore della foresta. Fin da subito resto sbalordito per la quantità di specie e la varietà di piante presenti. Non riesco a riconoscere neanche una specie di albero. E’ impressionante la vastità di flora che colonizza la foresta: uno spettacolo che auguro a tutti gli amanti della natura.

Più ci addentravamo nella profondità della giungla e più mi rendevo conto della soffocante umidità che avvolge il sottobosco, una cappa di calore umido che dopo pochi minuti rense la mia maglietta di un colore via via più scuro a causa del sudore che grondava dall’alto verso il basso. Dopo una quindicina di minuti arrivammo alla laguna; era proprio come nei film di Indiana Jones: tetra, silenziosa e straboccante di piante con radici aeree (simili alle mangrovie) che la proteggono e la difendono dall’arrivo di mammiferi assetati. Iniziò così la nostra pesca. Scelsi un cucchiaino che solitamente utilizzo per pescare i boccaloni (solo a pensarci ci muoio dal ridere) e che si rivelò subito l’esca vincente: abboccò immediatamente uno strano pesce con i denti aguzzi e ciò ci apparve di buon auspicio.

Gilberto dal canto suo, è uno che preferisce pescare con i vermi che ha previamente catturato scavando nella terra umida; la sua canna è in pratica uno stecco avente in cima un lungo filo di nylon, alla cui estremità è legato un artefatto artigianale simile ad un amo. Dopo alcuni minuti di attesa proseguì la fortunata battuta di pesca; si annoverano fra le prede catturate svariate specie a me sconosciute e dalla forma talvolta bizzarra. Pescare nella laguna è un vero gioco da equilibristi: basta perdere contatto con le radici su cui i piedi si appoggiano precariamente, per finire in una specie di sabbia mobile che risucchia in men che non si dica metà del corpo, dai piedi al bacino. Nonostante le varie insidie tornammo alla capanna con un bel bottino ed io fui strafelice di aver esaudito uno dei sogni della mia infanzia: pescare in luoghi incantati sui quali, fin da piccolo, fantasticavo guardando i film di avventura. Andremo più volte a pescare alla laguna durante il mio soggiorno, giungendo anche da un altro ingresso, dall’altro lato della foresta, dove Gaba aveva legato alla riva del fiume due canoe, così da poter navigare fino alle sponde opposte, altrimenti irraggiungibili.

Nei giorni seguenti, vista la generosa quantità di pesce catturato, ma sempre di taglia piccola, decisi di innescare un piccolo bagre (alias pesce gatto) facendo passare l’amo dalla minuta vescica e facendolo risalendo lungo tutto il corpo per fermarlo poi nella ruvidissima bocca del pesce. Attesi diversi minuti vivendo un’esperienza di spettacolo puro. Il silenzio del fiume torbido mi cullava e i canti di specie diverse di uccelli si alternavano come un una orchestra strampalata da cui è scappato via il direttore. Sentii di aver fatto la scelta giusta. Venire fino a qui, farmi giorni di viaggio e prendermi dei consapevoli rischi era la cosa più giusta che potessi fare. Ad un certo punto il cicalino della canna stride e il filo schizza via come non mai. Mi sentii come Jeremy Wayde su River Monster, diedi una rapida ferrata e la canna si stabilizza, sembra quasi sia incagliata sul fondo. Dopo pochi secondi partirono nuovamente altri 10 metri di filo e capii di avere agganciato un bel mostro. Moipa, sentendo le mie grida, scese fino al molo e, vedendo la canna piegata, si eccitò come un bambino al parco giochi correndo nel frattempo a prendere una lancia. Questi indigeni risolvono sempre tutto con le lance! Dopo un combattimento di oltre dieci minuti iniziò a apparire dall’acqua torbida una grossa figura piatta e scura: era una razza di fiume. L’acqua mista al fango rese l’apparizione ancora più intrisa di suspense e, non appena il grosso pesce cartilagineo si avvicinò alla riva, Moipa con un impeto da cacciatore di balene scagliò la lancia nell’acqua e trafisse a morte il grosso esemplare. Sarà pesato dagli otto ai dieci chili : un bel trofeo, ma soprattutto un’ottima cena dopo la rimozione del pungiglione velenoso, che sfortunatamente Moipa conosceva molto bene. Anni addietro un suo coetaneo aveva passato una settimana quasi paralizzato a causa della potenza del veleno, che si nasconde nella sacca posizionata a metà della lunga coda. Non sto a raccontarvi della scorpacciata che mi sono fatto la sera quando abbiamo cucinato il pesce bollito, dopo giorni passati a mangiare yuca e riso in bianco.

Non vi nascondo che da quel giorno la pesca si è sempre rivelata piuttosto fortunata ed imparai presto a pescare in autonomia diverse specie di pesci gatto a cui ho imparato a spezzare via le tre spine velenose. Mi sentivo, ogni giorno che passava, sempre più indigeno. La maglietta era solo un vago ricordo, così come la luce e l’acqua calda. Dopo circa una settimana, usando un canapetto di ferro e un bel pezzo di carne innescata grossolanamente, sono riuscito persino ad aprire le danze alla simpatica pesca del piraña. Se pensate che i barracuda e i boccaloni siano voraci è perché non avete mai pescato un piraña. Questi simpatici pesci hanno una dentatura simile ai miei incisivi, e, non appena viene calata l’esca, banchettano con una rapidità e forza che pare non abbiamo mangiato da mesi. Inizialmente ero ignaro dei loro denti aguzzi, perdendo in pochi minuti un paio di Rapala (pesci finti) alla cui estremità non avevo provveduto a legare nessun filo di ferro. Mi ha dato grande soddisfazione pescarli vista la forza con cui si opponevano al filo e al loro peso che superava spesso il chilo tondo. Con i denti gli indigeni, previa affumicatura nel fuoco, ne ricavavano dei rasoi per affilare e spezzare i dardi avvelenati delle cerbottane. Dato il cospicuo numero di piraña pescati è stato deciso alla fine di creare in mio onore una bellissima collana di fauci, che tuttora, quando la indosso, mi trasmette una forte nostalgia in ricordo di quei momenti senza tempo.

Ma adesso, scusandomi per la digressione, passiamo alla pesca seria. Un bel giorno Ndantemo, mentre stavo bello rilassato sulla comoda e sporca amaca, entrò di sobbalzo nella capanna ed esclamò: “bamo a peccar!”, andiamo a pescare nel suo spagnolo un po’ a caso. Così mi alzai, mi infilai gli stivali e mi misi in fila indiana dietro a Ndantemo e a Zia Gama. Dopo pochi minuti rimasi disorientato, le due donne anziché andare verso la laguna si dirigevano verso un lato a me sconosciuto della foresta; chissà …forse ci sarà un’altra laguna, dico tra me e me. Invece una volta raggiunti degli arbusti color ocra si chinarono a terra e si misero a scavare. “Che strano modo di pescare senza acqua”, pensai sbalordito tra me e me, “forse si sono drogate troppo con qualche pianta allucinogena”. In realtà quello a cui stavo assistendo era la raccolta del Barbasco, una potente radice velenosa con cui gli Waoranì pescano i pesci nelle collaterali del fiume principale, dove l’acqua è sempre più calma. Ndantemo inserì le radici precedentemente tumefatte nella sua cestella artigianale rigorosamente costruita con corteccia intrecciata e ci dirigemmo al fiumiciattolo.

Non sto a dirvi che di li’ a breve avrei assistito a qualcosa di surreale e meritevole di una delle miglior riprese di National Geographic. La linfa della ambrata radice si diffonse a macchia d’olio in tutto lo specchio d’acqua, donando alla superficie un colore bianco lattiginoso. In men che non si dica iniziarono a salire in superficie i primi pesci storditi dal veleno, che agisce per soffocamento. Gama si posiziona a valle del corso d’acqua sedendosi su un tronco a pelo d’acqua; tiene in mano una grossa rete artigianale che blocca i pesci già morti abbandonati alla corrente. Dopo mezz’ora le nostre ceste sono colme di pesci di ogni tipo, perfino una razza spuntata fuori nella disperata ricerca di salvezza. Questa è stata la battuta di pesca più strana ed emozionante della mia vita e l’immagine degli indigeni sommersi nel fiume che ne tastano carponi il fondo rimarrà per sempre impressa nei miei ricordi più indelebili. Se la pesca può sembrare adrenalinica è perché ancora non vi ho parlato della caccia con le lance ai cinghiali selvatici e a quella delle scimmie con i dardi avvelenati.